Eventi chiave
La geopolitica del mese di settembre è praticamente rimasta ai margini dell’attualità. La riunione del G20 è stato un successo di prestigio per il presidente indiano Narendra Modi, mentre l’assenza in loco sia di Xi Jinping, sia di Vladimir Putin ha inequivocabilmente fatto capire come l’evento non avrebbe potuto essere teatro di sviluppi d’interesse particolare. Il successo per il padrone di casa è dovuto al fatto che si è avuta una dichiarazione finale congiunta.
Essa è stata frutto di un esercizio diplomatico molto intenso in quanto è riuscito a non scontentare nessuno, anche se per finire ne hanno sofferto i contenuti. “Nulla di fatto” anche per la 78a Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
“In line with the UN Charter, all states must refrain from the threat or use of force to seek territorial acquisition against the territorial integrity and sovereignty or political independence of any state.”
(passaggio della dichiarazione finale del G20)
Degna di nota la situazione relativa all’evoluzione del prezzo del petrolio. L’Arabia Saudita era un fedele alleato degli USA, ma negli ultimi tempi i suoi interessi l’hanno portata più nel campo avverso. Il cambiamento strategico è stato alla base del sensibile rialzo del costo del greggio. Un movimento di natura geopolitica che va a complicare la situazione in parecchie nazioni.
Il rincaro del carburante porta a pensare ad un aumento dell’inflazione e ad ostacoli per la crescita macro. Il punto è che non si giunge a questa situazione in un momento congiunturalmente robusto, che permetterebbe una normale gestione da parte delle banche centrali. Ora si ha la spinta al costo della vita proprio in un frangente di difficoltà economica, ovvero quando le banche centrali dovrebbero avere spazio per ridurre i tassi d’interesse e non pressione per aumentarli. L’inflazione rimane una preoccupazione centrale; si deve però aggiungere che sono cresciuti i timori per la crescita congiunturale.
Principale responsabile è la situazione dell’economia cinese e le ricadute sull’Europa, in primis sulla Germania. Da un lato le banche centrali dovrebbero tenere i tassi d’interesse alti per combattere l’evoluzione del costo della vita, mentre dall’altra li dovrebbero tagliare per sostenere la crescita congiunturale.
E proprio all’interno di questi istituti la discussione è stata molto intensa. Le decisioni di BCE e Fed hanno rispettato le aspettative dei mercati, però la loro retorica ha molto sorpreso. Si può inoltre parlare di realtà incrociate. A Francoforte si è propeso per un rialzo del costo del denaro, ma con toni molto accomodanti. La visione è infatti diventata quella di un processo di rialzo ormai giunto vicino al capolinea.
La sensazione è che la debolezza della crescita macroeconomica sia diventata una preoccupazione di cui tenere conto anche in termini di azioni di politica monetaria. A Washington una settimana dopo la realtà è stata diametralmente opposta. Il livello dei tassi d’interesse non è stato cambiato, ma i commenti accompagnatori si sono rivelati alquanto aspri.
Le preoccupazioni per l’inflazione sembravano meno vive. Le maggiori autorità USA in termini di politica monetaria hanno però ricordato un po’ a tutti che la crescita del costo della vita ora come ora sembra proprio destinata a restare su livelli inaccettabilmente troppo robusti. In un mese particolarmente carico di riunioni di banche centrali è quindi stato il turno di Banca Nazionale Svizzera, Bank of England e Bank of Japan di attirare le attenzioni generali.
Sia a Berna, sia a Londra si è sorpreso non alzando il costo del denaro mentre a Tokyo un nulla di fatto era previsto.
Prospettive
I mercati finanziari stanno guardando con molta attenzione all’evoluzione dei tassi reali (tasso d’interesse nominale meno aspettative d’inflazione) a 10 anni in USD. A fronte di questa prospettiva è quindi importante soffermarsi sui maggiori fattori d’influenza per questo indicatore.
La geopolitica non sembra avere un ruolo primario, ma quanto successo per l’andamento del costo del petrolio ci ricorda che sono date dinamiche tanto meno evidenti, quanto di sicuro effetto. Un altro fattore che preoccupa è quello relativo all’indebitamento degli Stati: l’aumento del costo del denaro sta rendendo problematico il finanziamento del debito pubblico.
Nelle ore a cavallo del cambiamento di trimestre negli USA ha tenuto banco la diatriba politica relativa agli accordi necessari per permettere di continuare a finanziare il funzionamento corrente del governo. Si è usciti da un’impasse pericolosa con l’adozione di accordi provvisori, i quali in pratica posticipano al 17 di novembre la necessità di prendere misure di peso.
La crescita congiunturale in USA sembra essere abbastanza solida, per contro i problemi in Cina (sia macroeconomici, sia di difficoltà specifiche) rischiano di pesare in maniera veramente sensibile sul Vecchio Continente (Germania in primis).
Negli USA la Fed ha ricordato a tutti che l’inflazione non può per nulla venir considerata un problema risolto e, a questo proposito, gli scioperi in atto nell’importante settore automobilistico, con lo scopo di ottenere sensibili aumenti di stipendio, potrebbero creare timori tra gli investitori. È però importante aggiungere come sia agosto, sia (soprattutto) settembre siano stati caratterizzati da momenti molto difficili sui mercati finanziari e quindi in pratica si è arrivati a scontare realtà ben negative. Insomma: anche in termini di mercati finanziari, così come per le banche centrali, si è “data dependent”.
Ovvero: attenti alle opportunità, ma anche attenti alla gestione del rischio.